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Siena, il processo Ranza, tre dei cinque poliziotti del carcere di San Gimignano hanno ribattuto alle accuse: “Detenuto caduto da solo”

Claudio Coli
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Il detenuto tunisino era instabile e minaccioso: lo abbiamo trasferito coattivamente in via preventiva perché preso di mira da un altro recluso, durante giorni pieni di tensioni nel carcere. È stata un'operazione nella norma”. Così tre agenti della polizia penitenziaria a processo per il controverso caso del presunto pestaggio a danno di un carcerato nordafricano nell'ottobre 2018 si sono difesi in aula nel corso di un'altra udienza fiume dinanzi il collegio presieduto dal giudice Simone Spina. Una ricostruzione dei fatti diametralmente opposta rispetto a quella proposta dall'accusa sostenuta dalla pm Valentina Magnini, che insieme alle parti civili e alle difese ha esaminato tre dei cinque imputati per lesioni aggravate, falso ideologico e tortura. Tutti elementi da 25 anni in servizio nell'inferno delle carceri. Il primo a parlare è stato un ispettore: “Il detenuto dava problemi, era in isolamento per problemi disciplinari – ha spiegato – e non voleva cambiare cella. Perché in 15 ad eseguire il trasferimento? Non esiste un numero predefinito, non sapevamo cosa potesse succedere in quella circostanza. Molti si sono ritrovati in isolamento per dare manforte. La gestione del carcere era difficile in quel periodo, i detenuti erano agitati, avvenivano risse, aggressioni, danneggiamenti e atti di autolesionismo”. 

 


Un contesto confermato anche da un altro ispettore capo: “In particolare alcuni reclusi dell'alta sicurezza sobillavano una situazione di tensione per ottenere il trasferimento. Il tunisino era minacciato e offeso da un altro carcerato molto pericoloso, e non potendo trasferire lui e altri per i rischi di possibili conseguenze, abbiamo scelto il meno pericoloso, ma era comunque instabile – rimarca - in un frangente si era rifiutato di rientrare in cella perché sosteneva di vedere dei mostri al suo interno”. Secondo quanto ricostruito dagli agenti, la presunta vittima del pestaggio non voleva accettare di cambiare cella. E così gli agenti, sapendo che aspettava il suo turno per fare la doccia, hanno utilizzato un “effetto sorpresa” per farlo uscire dalla sua cella. Agendo in formazione ampia per prevenire qualsiasi situazione imprevista vista l'alta tensione che si respirava nel reparto. “Un'operazione nella norma per chi lavora in carcere, se fosse il contrario avremmo sbagliato lavoro per 25 anni” sottolinea l'assistente capo. “Appena fuori dalla cella lo abbiamo preso per le braccia – ha ricostruito invece l'ispettore – ma non volevamo farlo cadere. Il ragazzo è inciampato nei suoi pantaloni, e sono caduto anche io con lui. I guanti? Sono obbligatori se entriamo in contatto coi detenuti”. “Lo abbiamo accompagnato alla nuova cella in sicurezza, a tutela di lui stesso e degli agenti, visto che non collaborava – ha l'assistente capo che è accusato di avergli tirato un pugno e di aver messo il detenuto ventre a terra – non è assolutamente vero che l'ho colpito, è scientificamente impossibile, non gli ho procurato nessun danno, lo volevo solo adagiare a terra perché a un certo punto non si riusciva a passare. La presa a terra? È stata paragonata a quella su George Floyd, è una cosa che mi ha fatto molto male”.

 

 

Ad intervenire sono in 15, ma di fatto solo 3, per precauzione visto il periodo critico nella casa circondariale – afferma a margine dell'udienza l'avvocato Manfredi Biotti, difensore di 4 agenti su 5, un altro è rappresentato dai legali D'Amato e Anelli – un atteggiamento di prevenzione, non si si mai se un detenuto può reagire o avere armi da taglio o contundenti. Per comprendere i fatti bisognerebbe conoscere le dinamiche e quello che avviene tra quelle mura”.